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Intelligenza artificiale e psicologia: gli assistenti vocali sono intelligenti?

  • Dora
  • 16 apr 2016
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento dopo aggiornamento, il sistema operativo iOS migliora sempre più le prestazioni dell'assistente personale Siri si evolvono. Si può già parlare di intelligenza artificiale? E che effetti ha questo sul nostro benessere?

Vi abbiamo parlato del film Lei (Her) di Spike Jonze, che porta alle estreme conseguenze il tema dell'intelligenza artificiale, ipotizzando che un giorno gli assistenti vocali saranno in grado di provare emozioni e che sia possibile instaurare con loro relazioni amorose.

Ma siamo veramente così lontani da ciò? Nel 2014 uscì un articolo sul New York Times, scritto da Judith Newman, la mamma di un ragazzo tredicenne affetto da autismo. La donna spiegava come il figlio avesse iniziato ad utilizzare Siri, instaurando con lei un rapporto quasi affettivo (qui l'articolo originale e qui l'articolo in italiano).

Tuttavia alcuni hanno messo in evidenza come Siri e gli altri assistenti vocali (Google Now di Android, Cortana di Windows e S voice di Samsung) non comprendano e non forniscano soluzioni congruenti, al momento, per problemi quali violenze, abusi, depressione o per mali fisici quali infarti e dolori (qui puoi leggere l'articolo specifico).

Questo fa capire che resta ancora molto lavoro da fare per migliorare la comunicazione uomo-macchina.


Ma cosa ne pensa la psicologia? E soprattutto, esistono punti di contatto tra la scienza psicologica e il tema dell'intelligenza artificiale? La risposta è assolutamente sì.


Forse non tutti sanno che negli anni Sessanta iniziò a diffondersi nel mondo della psicologia la Teoria Cognitivista, che concepiva la mente umana come un elaboratore d’informazioni, incapace di plasticità.

Nel 1967 Neisser pubblicò un volume dal titolo Psicologia cognitivista, che dà un nome alla nuova corrente. La versione del cognitivismo incentrata sull’analogia mente-computer viene chiamata corrente HIP (Human Information Processing).

La simulazione del comportamento era la metodologia di ricerca più utilizzata. Consisteva nella riproduzione attraverso il computer delle operazioni mentali eseguite per comprendere una frase, o per riconoscere una persona.

Più recentemente (negli anni Ottanta) si è iniziato a parlare di Scienza cognitiva: un approccio interdisciplinare allo studio dell’intelligenza naturale e artificiale. Lo scopo della scienza cognitiva è stabilire come le conoscenze sono codificate dalla mente, in base a quale architettura, struttura astratta le informazioni vengono elaborate, prescindendo dalla base neurobiologica.

Con la nascita della Scienza cognitiva si inizia a parlare anche di Intelligenza Artificiale.

Sotto il profilo ingegneristico l’IA si occupa prevalentemente della costruzione di macchine che possano assistere l’uomo se non addirittura sostituirlo in certe operazioni computazionali; come disciplina psicologica l’IA si occupa invece della costruzione di macchine che riescano il più possibile a riprodurre l’attività cognitiva umana.

Secondo John McCarty e Marvin Minsky (1956) l’obiettivo dell’Intelligenza Artificiale è quello di costruire macchine in grado di usare il linguaggio, di formare astrazioni e concetti, di migliorare se stesse e risolvere problemi che sono ancora di esclusiva pertinenza degli esseri umani.


Sembra quindi evidente come l'apporto della psicologia in questa disciplina sia non solo importante, ma fondamentale. Nel futuro, sarà necessario un dialogo interdisciplinare sempre più attento alle esigenze psicologiche di chi si interfaccerà con dispositivi dotati di Intelligenza artificiale. Questo per evitare conseguenze negative, e per fare in modo che queste nuove tecnologie siano davvero utili e favoriscano il nostro benessere.

 

Per approfondire:

 
 
 

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